Difficile, praticamente impossibile disgiungere le sue scelte fondamentali, il lavoro letterario dalla sua vita: Arno Schmidt (Amburgo 1914 – Celle 1979) va ricordato e letto per l’obbedienza radicale con la quale è andato progressivamente identificandosi con la propria opera. Alle versioni italiane di alcuni suoi testi verso la metà degli anni Sessanta, al tempo in cui diventava facilmente à la page qualsiasi cosa potesse essere classificata come “sperimentale” o “d’avanguardia”, attorno a lui sono seguiti decenni di quasi silenzio. Fino al 2005, grazie al traduttore Domenico Pinto e all’editore Lavieri, seguiti poi da altri.
Altro che “sperimentazione”, altro che “avanguardia”, intese come volontà di individuare un qualche moto progressivo (verso dove, poi?) in ambito artistico. Altro che desiderio di entrare a far parte dei salotti buoni della letteratura (in Germania erano quelli frequentati da Grass, Lenz, Böll): “Arno Schmidt”, scrisse Walter Kempowski il 15 giugno 1979 per onorare la scomparsa dell’amburghese, “stonava con il paesaggio letterario e le sue particolari qualità sono rimaste lontane dal diventare materia per notizie sensazionali.”
Dopo aver sperimentato, insieme alla moglie Alice, il vagare, le difficoltà e le ristrettezze causate dalla condizione di profugo dai territori tedesco-orientali occupati dai sovietici, nel 1958 la scelta di residenza che risulterà quella definitiva: una piccola casa in legno a Bargfeld, in Bassa Sassonia. Una decisione per l’isolamento, per la clausura, ha scritto qualcuno. Nulla di snob, piuttosto la coscienza che l’opera, per essere arte, esige scelte radicali. Così un brano da Brand’s Haide (traduzione di Domenico Pinto, Lavieri 2007): “Poeta: se riscuoti il favore della gente, domandati: cos’ho fatto di male?! Se lo riscuoti anche per il tuo secondo libro, allora getta via la penna: non sarai mai un grande. Poiché la gente altra arte non conosce se non quella marziale o culinaria (non fraintendiamoci: possono essere anche brav’uomini, ma cattivi musicanti!)”. In un altro passo dal testo (non ci si illuda, è composizione complessa, “prosa intermittente”) per intendere come l’arte per Schimdt fosse tutt’altro che “intrattenimento”: “Per me non è un fronzolo della vita, un orpello da seratina, una cosa a cui guardare con simpatia dopo un giorno di duro lavoro: per me è l’inverso: è l’aria che respiro, l’unica cosa necessaria, tutto il resto è spurgo e latrina. Quand’ero un ragazzo: avevo 16 anni allorché lasciai la vostra associazione. Quello che per voi è noioso: Schopenhauer, Wieland, La valle di Campan, Orfeo: fa la mia naturale felicità; ciò che a voi interessa alla follia: swing, cinema, Hemingway, politica: mi dà il voltastomaco. – Tu non puoi sapere: ma vedi bene che non sono ‘privo di sangue’ o ‘arido’, non più di voialtri: non m’innervosisco certo di meno, e mi entusiasmo, e frequento mostri, e odio.”
Tempo fa Claudio Magris sottolineò le invettive di Schmidt contro il nazismo, dimenticando che il buon Arno non ha esitato a mettere sullo stesso piano i comunisti: “L’arte del popolo?!: Lasciamo lo slogan ai nazisti e ai comunisti: la gente (ognuno!) deve incomodarsi per l’arte! – Altre amenità di questo tipo mi salivano e scendevano per le scale del cervello, punta e tacco: ma indossai il cappotto per mettermi a dormire.” A Greiffenberg, nella Slesia, Schmidt fece appena in tempo a tornare dal fronte prima dell’arrivo dell’Armata Rossa e insieme ad Alice poté mettere in salvo, in uno zaino, solo i propri manoscritti, insieme a un’edizione dell’opera completa di Christoph Martin Wieland: la porta della città era già a fuoco. Nella disperata situazione della postbellica Germania occupata non è mancata a Schmidt la lucidità per guardare al crudo destino che la storia ha riservato, e avrebbe potuto ancora riservare, al popolo tedesco: “Pure per loro (gli Alleati) noi non siamo che pedine: se entro 5 o 10 anni dovessimo servirgli contro la Russia, ci ficcheranno di nuovo le uniformi, e verremo offerti su un piatto d’argento agli assassini di professione che adesso stanno in aspettativa, e: sotto a chi tocca! “Sii sempre fedele e onesto…!”
Brand’s Haide, “la foresta dalla fama cattiva” da cui soffia eternamente un “vento senza forma e vitale”, è metafora del luogo isolato, eppure totalmente immerso nel mondo inteso come “amplificazione dell’Io poetico” (Pinto), dal quale Schmidt vorrebbe essere scoccato come una freccia, “verso qualche luogo”.
In Specchi neri (ancora traduzione di Pinto e sempre per Lavieri, 2009) l’anonimo narratore vaga in bicicletta in una landa, quella di Luneburgo, ormai priva di qualsiasi segno di civiltà, alla ricerca di uno spazio utile per costruire la propria casa, in legno, dopo che il genere umano, vittima della “grande catastrofe”, si è ridotto sull’intero pianeta a poche unità. Un Nessuno, figlio di nessuno, disperso, come nella vita fece lo stesso Schmidt, nelle oscurità delle foreste, perché “le foreste sono quanto v’è di più bello!”. A nulla serve l’incontro con Lisa, altra sopravvissuta: dopo una breve condivisione del comune destino è anch’essa destinata a vagare, per amore di solitudine.
Affidandosi anche qui alla sua “prosa intermittente”, fatta di citazioni colte, divagazioni e lampi improvvisi, tutto sembra voler confermare quell’ateismo privo di consolazioni più volte apertamente professato da Schmidt: “se tutto filava liscio potevo vagare ancora a lungo per la terra deserta di uomini: non avevo bisogno di Nessuno!” C’è una figura di natura però che squinterna e sembra render vano il piano d’assoluto isolamento e di totale immersione nel negativo degli “specchi neri”. È la luna (che in tedesco, si ricordi, è di genere maschile), tanto cara alla poesia romantica. Una figura così frequente e significativa da essere tradotta dallo stesso Pinto con l’iniziale maiuscola: “Mi risvegliai: a tal punto la Luna, attraverso la finestra laterale, s’incaparbiva sul mio viso intorpidito”. È la sua luce, per quanto riflessa, a sollecitare riflessioni sulla relazione tra l’io e il mondo: “L’infinito diviene il centro interiore più profondo, e attraverso di esso tracciamo le nostre coordinate, il nostro sistema di riferimento e la misura delle cose”. Ed è alla sua presenza che ogni lontananza viene meno e perfino l’amore acquista nuovo spessore: “tanto più l’amata s’allontana : più a fondo si interna in noi”. In conclusione, partita Lisa, la “bianca selvaggia”, all’”ultimo uomo”, non resta che levare “ancora una volta uno sguardo verso l’alto” ed osservare “la Luna come chiave di volta nell’ogiva sghemba del cielo”.
Non a caso sarà proprio questo Schmidt, così ateo eppure così profondamente religioso, ad essere letto e stimato, intorno alla metà degli anni Cinquanta, da quell’Alfred Döblin da poco convertitosi al cattolicesimo.
Nonostante la scelta “claustrale” di Bargfeld, ad Arno e alla sua opera non sono mancati riconoscimenti, nella Germania Federale. Da ultimo il Goethepreis, nel 1973. Erano tempi di accesa contestazione sociale e tuttavia, di quella generazione di arrabbiati, cosa poteva mai importare allo scrittore Schmidt? Nel 1970, dopo sei anni di assoluto taglio delle comunicazioni con l’esterno, aveva pubblicato uno dei più voluminosi e complessi libri della letteratura tedesca, Zettel’s Traum, un volume di 1334 pagine. Degli intellettuali contestatori, di coloro che facevano a gara per prendere parte alle pur legittime battaglie operaie sull’orario di lavoro non poteva davvero importargliene nulla. Già in gravi condizioni di salute, Schmidt inviò la moglie a ritirare il premio, a Francoforte, e fu lei a leggere il suo discorso di ringraziamento. Sfinito ormai per il disperato lavorare alla letteratura, fu quella la sua ultima occasione per ribadire la propria “lontananza” dal mondo: “Sarà inattuale e impopolare, ma come unica panacea, contro tutto, so citare solo il “lavoro” […] Lo sproloquio sulle 40 ore settimanali non posso più sopportarlo: la mia settimana ha avuto sempre 100 ore: Zettel’s Traum ne ha richieste 25.000! Quella sì fu una giornata importante, quando lo finii.”
Vito Punzi