Albacete, dall’arabo «La Pianura», è un luogo della Mancha. Su questo piano infinito, provincia dell’insania di Chisciotte, si dipartono da secoli le strade della letteratura moderna. I quattordici racconti che compongono il libro escono dall’idea disabitata del Romanzo – di cui il modello cervantino è, a sua volta, assoluto e negazione –, tracciano un camminamento dentro il doppio e la follia.
Ora un melanconico Quijote, ora una fanciulla nutrita di troppe, malintese letture, ora un capitano di vascello su mari tropicali, tutti i protagonisti hanno un filo che li collega, una forma narrativa, ovvero un’immagine del tempo: costoro, come in una corrispondenza tra fantasmi, sono scrittori di lettere, resoconti, note, diari e biografie. Sempre in bilico tra la confessione e il soliloquio, via via che il senso del mondo si sgretola, vengono funestati da un sosia perverso o dalla sua latenza, in un fluire incessante e circolare delle personalità, dove i figli allignano nel campo psichico dei genitori, e i fratelli prendono il posto dei fratelli. Letteratura e realtà appaiono, qui, due rive dello stesso fiume.
Nell’enigma, nell’oltremondo in cui restano recisi, personaggi e accadimenti – lo dice il narratore – sono «interni con figure»: certi emblemi, le nature morte, certi archetipi narrativi (talora solo un accordo di fantascienza) chiudono con una tradizione del racconto, il soggetto sfuma in un’altra luce, «veramente in una luce nuova». Ravvolta da un mistero esemplare, la sua voce, limpida quasi incisa al microsolco, dopo essersi sdoppiata, torna a distruggere l’eufonia e, con essa, ogni principio di realtà.
Come un Grande Vetro duchampiano, dal «cimitero delle livree e delle uniformi», da questo fondo segreto emerge, disorchestrato, l’inconscio letterario di un’epoca.
Ettore Verardi (proprietario verificato) –