Un libro che torna a riflettere su quel secolo grande e terribile che è stato il Novecento, un secolo che ha visto alternarsi o addirittura camminare insieme l’attesa e la sconfitta, il sangue e la gloria, la grandezza e la miseria. Per nomi e luoghi, nominati o solo allusi, passano le immagini degli scrittori che nutrirono il sogno di una comunità nuova (ad esempio Robert Walser) o di un compimento della storia all’insegna del materialismo messianico (Walter Benjamin) e poi dei combattenti, dei partigiani e dei miliziani che militarono da una parte sola della barricata, in difesa dell’umanesimo europeo e internazionalista.
Poi c’è il paesaggio italiano e le ombre dei poeti e degli autori amati visti come emblemi di una formidabile modernità che ancora abbaglia il presente, da Baudelaire a Nabokov, da Mandel’štam a Celan, da Durrell a Pasolini. E, infine, ci sono gli amici, i compagni di strada, i maestri più prossimi eppure già lontani, perduti.
Affiorato dopo venticinque anni di silenzio, Il tempo che non venne è il secondo corpus di poesie – con Notturna, Campanotto (1987) – a essere raccolto in volume da Enzo Di Mauro.
Nel punto dove si ritira il Novecento, e comincia il libro, è bruciata ogni spinta di cambiamento, ai sogni di giustizia sociale la storia ha dato fin de non-recevoire; una luce radente schiaccia o dilunga le utopie. Contempla il mondo dalla sua possibile redenzione, «privi di fiato e di trombetta», un cerchio di angeli: questi amici fraterni dei perdigiorno hanno un’ala impigliata nella storia; sono camminanti solitari, «viaggiatori da fermo» o Belacqua accosciati al suolo, gli uguali dei poeti. Baudelaire, Walser, Pasolini e Porta, una corrente di puri spiriti attraversa il camposanto vasto dell’Europa. Alcuni nomi sono pronunciati a metà, altri non compaiono affatto e risuonano dentro una voce definitiva, sì che anche dopo i lampi politici e le invettive ruota sempre un perno, l’addio chiude su un’unica frase musicale in “lasciando”.
Però quante volte, nella piega dei fogli, ritorna la parola «futuro», in questo che pure è il territorio dell’elegia e del planh, tanto da poterne fare, per chi resta, un libro sul futuro: al di sopra di tutto, ilare e irreconciliabile, sembra di udire il segnavia nietzscheano: Naufragium feci, bene navigavi.
(Domenico Pinto)
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